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Paolo e Giuseppe Borsellino

  • Redazione
  • 11 dic 2015
  • Tempo di lettura: 5 min

Avete idea di che persona speciale sia Antonella Borsellino, una persona che ha trovato la forza di trasmettere il proprio sorriso, nonostante abbia vissuto sulla propria pelle la brutalità della mafia. Ci si immagina di doversi dotare di una forza enorme, che travalichi l'incertezza, l'inadeguatezza di quel momento. Ci si sforza di trovare le parole migliori, almeno quelle meno banali per accogliere una persona la cui famiglia è stata vittima della mafia. Eppure quando ce l'hai di fronte ti rendi conto che non serve. Anzi, sono loro stessi a darti tutta la forza di cui hai bisogno, a farti complice della serenità che sprigiona dal loro sguardo, a distendere tutte le tue paure. Incontrare Antonella Borsellino al Campo Antimafia è stato così.

Si è messa in viaggio da Santa Margherita di Belice, un paesino della provincia di Agrigento. Suo fratello Paolo e suo padre Giuseppe erano due imprenditori umili ed onesti, uccisi per aver detto no. No a chi pretendeva di avvinghiarli a sé con il loro potere invisibile, di mettere le mani su ciò che costa più sudore all'essere umano: il lavoro. Perché in Sicilia, racconta Antonella, se vuoi portare il pane a casa, devi venderti ai 'signorotti' che tengono sotto scacco gli affari locali, in virtù di una logica esclusivista e mafiosa. Giuseppe e Paolo Borsellino invece volevano camminare da soli, con i frutti del proprio lavoro.

Con molto sacrificio, nella seconda metà degli anni '80, padre e figlio comprano un piccolo impianto di calcestruzzo a Lucca Sicula, fornendo materiali soprattutto ai privati a causa di un tacito patto tra amministrazione e imprese "protette", che non permetteva di accedere agli appalti pubblici. Ben presto, l'attività viene adocchiata dalla cosca del posto e durante un periodo di crisi dell'impresa, i Borsellino ricevono alcune offerte di acquisto. Dopo i primi rifiuti, complice la situazione economica ormai al collasso, Giuseppe e Paolo decidono malvolentieri di vendere il 50% dell'impresa ad alcuni imprenditori di Burgio per 150 milioni di lire. I nuovi soci cominciano subito ad investire in mezzi e beni per l'impresa, in modo tale da aumentare il capitale sociale e arrivare a togliere di mezzo Paolo e Giuseppe. Intanto, vengono tagliati gli alberi dei loro terreni, incendiati i camion e le pressioni per abbandonare l'impresa si fanno sempre più intimidatorie. "Ma la morte è lontana dai pensieri della nostra famiglia - come racconta nel libro "Senza storia" il giornalista Benny Calasanzio Borsellino, figlio di Antonella -. Non potevano arrivare ad uccidere un uomo per un’impresa, al massimo avrebbero provato a spaventarlo. E’ stata questa forse la nostra più grande ingenuità, pensare che se eri onesto non dovevi temere, anche perchè avevi la giustizia accanto".

Quel 21 aprile 1992 qualcuno si fece beffa dell'onestà di Paolo e lo uccise a colpi di fucile all'età di 31 anni, servendosi della lealtà di un amico d'infanzia. Suo padre Giuseppe, da quel momento, non ebbe pace. Non cercava vendetta, ma solo la verità sull'omicidio del figlio, mentre le indagini venivano condotte in maniera volutamente superficiale. Così, Giuseppe divenne un assiduo frequentatore della procura, si rivolse alla commissione antimafia, intercettò magistrati e cominciò a parlare di infiltrazioni mafiose nelle istituzioni, di appalti sospetti nella zona, delle minacce subite, fece nomi e cognomi. Dichiarazioni che qualche anno più tardi serviranno ad accelerare un'operazione antimafia. I media lo definirono un pentito, la prefettura gli offrì un porto d'armi per difendersi e una pattuglia di carabinieri che passava a controllarlo di tanto in tanto. Null'altro. Il 17 dicembre 1992 anche Giuseppe venne ammazzato. Tra la gente che affollava la piazza del paese. Nell'indifferenza di molti com'era stato fino a quel momento.

Per molti annni, il dolore e l'incertezza della giustizia - per Paolo Borsellino non ci sono colpevoli né processi in corso - hanno scavato un grosso buco nero nella vita di Antonella. Nel 2012, il figlio Benny ha conosciuto Salvatore, fratello del giudice Borsellino, e da lì è iniziato il percorso dell'elaborazione e del racconto in giro per l'Italia. Poco a poco, Antonella è riuscita a risollevarsi, decidendo di portare avanti la memoria dei suoi cari, anche attraverso iniziative come "L'alba della legalità", che insignisce di un premio persone che nutrono una certa cultura antimafiosa e coinvolge bambini e ragazzi delle scuole. "Nonostante tutto, ho ancora fiducia che si arrivi alla verità. Dal canto mio, so che chi ha ucciso mio fratello e mio padre ha perso, perché io riesco ancora a far ricordare la loro esistenza. La ricchezza dell'incontro con persone come voi è proprio questa: qualcosa di questa storia vi resterà e voi lo racconterete ad altri. Andando via ricorderete che è esistito un altro Paolo Borsellino".

Antonella ci dimostra poi il suo entusiasmo, la sua ammirazione nei confronti della battaglia che stiamo conducendo sui beni confiscati alle mafie. "Mi piace il vostro essere scanzonati, questo vostro modo di prendere le cose con spensieratezza, nonostante conosciate il peso e l'importanza di ciò che state facendo". Non nasconde la tristezza, invece, quando ci dice che in provincia di Agrigento, lì dove esistono oltre 200 patrimoni confiscati e del tutto inutilizzati, la mentalità, oltre che la mancanza di figure professionali ad hoc, impedisce che la potenza economica di Cosa Nostra venga letteralmente distrutta attraverso la giusta riappropriazione dei beni da parte della collettività ed, anzi, appare ancora normale abbassare la testa e inchinarsi di fronte allo sguardo imperioso di chi comanda nel territorio. "Esiste un vero e proprio problema culturale. Nel mio paese, vedo i ragazzi annoiati, abbandonati a loro stessi, seduti al bar a giocare alle slot machines o a bere birra. Non esistono associazioni o realtà di aggregazione che li stimolino in qualche modo. Andare a fare un campo antimafia è impensabile per loro, anche perché gli stessi familiari sanno a chi appartengono determinati terreni confiscati e non approverebbero".

Le parole di Antonella Borsellino ci colpiscono, come è accaduto per Vincenzo Agostino e sua moglie Augusta, come è accaduto per Ignazio Cutrò l'anno scorso. Bersagli di una mafia che si è intrufolata violentemente nel nucleo del calore per eccellenza - la famiglia - o che hanno visto sfumare i frutti del proprio sudato lavoro. Conterranei di una Sicilia che affonda ancora metà delle proprie radici nel fango della mafia e gode del silenzio più vile dei propri abitanti. Noi non possiamo far finta di niente. E' proprio in virtù di quelle parole che noi vogliamo lacerarlo questo silenzio, che vogliamo abbattere questo muro di omertà. Noi qui a Gaeta vogliamo che i siciliani comprendano il valore di questa lotta, si uniscano a noi e si riprendano ciò che appartiene loro. Lo devono a se stessi.

 
 
 

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